Il nuovo Testo Unico FER d.leg.vo n.190/2024. La massima diffusione e la minimizzazione dell’impatto.
Limite massimo di occupazione e le aree idonee- riflessioni e prospettive, a cura di Marco Luigi Marchetti
Entrato in vigore il 30 dicembre 2024 il nuovo Testo unico si affaccia silenziosamente sui nostri territori, permanendo l’esigenza impellente dei comuni di avere risposte chiare ai loro problemi nella fase - per l’Umbria delicatissima - dell’arrivo di tante istanze per la collocazione di impianti fer. Sono note le voci critiche che stanno accompagnando la installazione di impianti - soprattutto eolici sui crinali dell’Appennino - come sono note le difficoltà dei comuni di fronteggiare progetti di particolare complessità a cui mal si oppongono proclami di generica interdizione alla installazione. Inutile ribadire che essi devono invece puntare ad una valutazione ben più approfondita e strategica. La competenza necessaria a creare un substrato idoneo a raggiungere un buon risultato continua a rimanere l’unica risposta, e chi si aspettava soluzioni semplicistiche non sarà certo soddisfatto, qualunque sia il fronte con cui si schieri. Solo che tutti devono la loro parte, regione compresa.
Il Testo Unico non raggiungerà infatti la panacea delle fer, avendo proclamato la sua esigenza di riordino della materia e di semplificazione delle procedure e dei regimi autorizzatori (che da solo non sarebbe poco, visto che negli ultimi anni eravamo abituati a riconcorrere norme che invecchiavano con cadenza mensile, così impedendo il consolidamento delle interpretazioni e di costruire pianificazioni o strategie), ma i grandi temi rimangono. La semplificazione è data dalla creazione di tre regimi (attività libera, pas, autorizzazione unica) ferma rimanendo la competenza ministeriale oltre i 300 MW. Gli allegati A,B e C annessi al testo ne raccolgono la casistica minutamente dettata.
Ma sono i principi a catturare l’attenzione del giurista, visto che da essi poi discendono a cascata le singole scelte, e si decidono sorti di territori oltre che della produzione energetica nazionale. Da essi si traggono spunti di notevole interesse, visto che le interpretazioni giudiziarie fornite nel nostro territorio hanno toccato vette alte, generando regole preziose nelle conferenze di servizi per la installazione. Mi riferisco in primo luogo al principio applicativo sulla percentuale massima di occupazione territoriale che dal dettato dell’art.20 del d.leg.vo 199/2021 è passato alla concretezza grazie alla lettura che ne ha dato il Tar Umbria in varie importantissime pronunce.
Del principio si è parlato anche in sede di Commissione Parlamentare per la elaborazione del Testo Unico visto che era stato invocato per evitare conseguenze ben note in alcuni territori ove la saturazione da impianti aveva posto da tempo il problema del limite ( ad es. Tuscia, Provincia di Foggia, Basilicata, e altri) ). Traendo spunto dall’art.20 del d.leg.vo 199/2021 infatti, il Tar Umbria aveva reputata pienamente legittima l’impostazione della legge regionale umbra istitutiva del Reg. Reg.n. 7/2011 modificato con la LR n.4/2022 disponente limiti percentuali massimi di occupazione, a seconda della destinazione effettiva ed urbanistica (con agevolazione per le CER).Quelle sentenze (Tar Umbria nn.613,615,723/2023) hanno infatti mitigato l’applicazione del principio di massima diffusione delle fer confermando la fissazione di un tetto possibile e legittimo. Nella ricerca ultraventennale di una soluzione o quanto meno di una linea di mediazione (ma il termine non è dei migliori) tra gli interessi in campo, nonché di criteri concreti sul tema della collocazione degli impianti - quello della percentuale massima di occupazione è centrale non solo per le regioni (ad es. quelli già citati del Lazio, Puglia, Basilicata) dove la concentrazione ha assunto carattere patologico, e dove i comuni invocano inutilmente il principio di saturazione, ma anche dove il tema è agli inizi dello sviluppo (come in Umbria) e potrebbe fungere da prevenzione proprio per quegli errori commessi altrove.
Il tema rileva perché qui non si verte tanto sul concetto del decidere “caso per caso”, quanto di riconoscere un potere interdittivo unilateralmente determinabile,così da generare un limite massimo - un tetto appunto - che assume su di sé altre valenze, di competenza regionale, di principio, di limitabilità delle fer. La giurisprudenza lo aveva affermato: ad es. Tar lazio, 12 giugno 2023 n.9907: ” … le stesse Sezioni Unite della Cassazione Civile hanno ribadito la sussistenza di un favor allo sviluppo delle fonti rinnovabili derivante dalla normativa Europea, puntualmente recepito dal legislatore nazionale, tale da non consentire “alle singole Regioni di adottare legittimamente una normativa regionale concorrente contrastante con questi principi, che ponga dei divieti assoluti di realizzazione di impianti da energie rinnovabili, né di adottare provvedimenti amministrativi che precludano la realizzazione di tale finalità in assoluto, ma lasciando spazio alle Regioni di individuare, caso per caso, situazioni in cui l’interesse allo sfruttamento della energia da fonte rinnovabile debba essere recessivo rispetto ad altri interessi costituzionalmente protetti, che rispondano anch’essi a principi affermati a livello Europeo”, ciò allo scopo di bilanciare, volta per volta, tutti gli interessi pubblici eventualmente contrapposti (cfr. Corte Cass., Sez. Unite, 14/04/2023, n. 10054)”.
La differenza è però fin troppo evidente: un conto è valutare a valle, ed in sede procedimentale, o giudiziaria, con visione lenticolare, che quella certa collocazione supera dei limiti in modo tale da prevaricare su altri interessi e diritti; un altro è riconoscere il potere della regione di fissare dei limiti astratti in via preventiva e con calcolo percentuale. Il Tar Umbria riconosce questo potere laddove legge l’art.20 del d.leg.vo 199/2021 come contenente queste prerogative a proposito della individuazione delle aree idonee. Il Tar ricorda infatti come i decreti - poi usciti - avrebbero dovuto «dettare i criteri per l’individuazione delle aree idonee all’installazione della potenza eolica e fotovoltaica indicata nel PNIEC, stabilendo le modalità per minimizzare il relativo impatto ambientale e la massima porzione di suolo occupabile dai suddetti impianti per unità di superficie, nonché dagli impianti a fonti rinnovabili di produzione di energia elettrica già installati e le superfici tecnicamente disponibili» (lett. a)). In secondo luogo, quando gli stessi decreti avrebbero dovuto «indicare le modalità per individuare superfici, aree industriali dismesse e altre aree compromesse, aree abbandonate e marginali idonee alla installazione di impianti a fonti rinnovabili» (lett. b)). Se i decreti non lo hanno poi fatto, diveniva legittimo per le regioni procedere sussidiariamente alla fissazione non operata dal legislatore nazionale, non potendo lasciarsi senza tutela un territorio. Tutto passa dunque per la individuazione delle aree idonee. Siamo ancora in attesa purtroppo di questa individuazione assistendo a comportamenti non omogeni da parte delle regioni. Con la scadenza del termine il timore è che anche questa possibilità di lettura possa cedere di fronte all’inadempimento regionale, visto che la limitazione percentuale poteva essere giustificata fino a quando i decreti non fossero usciti , ma oggi le cose sono cambiate.
Il decreto infatti è poi uscito ed è stato subito impugnato con esito di sospensione parziale degli effetti in virtù della nota ordinanza n. 4298 del 14 novembre 2024 del Consiglio di Stato ,che ha rilevato profili di problematicità laddove il decreto consente alle Regioni di dichiarare “non idonee” anche quelle aree che, ai sensi del D.Lgs. 199/2021, sono già state individuate come idonee per l’installazione di impianti da fonti rinnovabili.
Ma nell’attesa della decisione va affrontato il tema di fondo sopra proposto: il decreto di giugno non parla più della massima porzione di suolo occupabile per unità di superficie, che è concetto preciso e chiaro per la determinazione matematica e percentuale, e quindi del limite massimo di occupazione delle aree interessate. Non solo, ma la nuova nozione di attività di manutenzione ordinaria travolge anche i limiti percentuali: non potrebbe limitarsi un’attività per legge libera.
E Il tema ha risvolti importanti: il primo è se le regioni possano o meno attenersi alle indicazioni dell’art.20 del d.leg.vo 199/2021 e introdurre comunque un tetto massimo percentuale, oppure se è interdetto discostarsi dai binari disegnati dal decreto ministeriale che di tale concetto non fa menzione; oppure ancora se quel concetto svanisce di fronte alla individuazione delle aree idonee per come dettate nei criteri individuativi da parte del decreto, nel senso che la stessa individuazione renderebbe inutile tale determinazione visto che essa avviene tenendo conto di vari fattori astrattamente includenti i concetti dettati dall’art.20 tra cui la “ massimizzazione delle aree da individuare al fine di agevolare il raggiungimento degli obiettivi di cui alla Tabella A dell’art. 2; delle esigenze di tutela del patrimonio culturale e del paesaggio, delle aree agricole e forestali, della qualità dell’aria e dei corpi idrici, privilegiando l’utilizzo di superfici di strutture edificate, quali capannoni industriali e parcheggi, nonché di aree a destinazione industriale, artigianale, per servizi e logistica, e verificando l’idoneità di aree non utilizzabili per altri scopi, ivi incluse le superfici agricole non utilizzabili, compatibilmente con le caratteristiche e le disponibilità delle risorse rinnovabili, delle infrastrutture di rete e della domanda elettrica, nonché tenendo in considerazione la dislocazione della domanda, gli eventuali vincoli di rete e il potenziale di sviluppo della rete stessa; (art. 6 del DM ) come a dire che una volta definite le idonee (e/o le inidonee) il resto non conta e il limite si determina da solo. Con l’ulteriore conseguenza che quello dettato con legge regionale potrebbe non essere più adeguato al sistema, essendo un potere consumato con la scadenza del termine per la individuazione delle aree idonee.
Per la verità il principio di cui parliamo non è sovrapponibile. Il limite percentuale è concetto diverso ed attiene al principio di saturazione (derivante dal principio di proporzionalità di caratura costituzionale) e detta un tetto oltre il quale non si potrebbe andare in nessun caso perché si vanifica quella compresenza di diritti ed interessi che assicura uno sviluppo equilibrato del territorio ponderato nel suo complesso, come esito di una valutazione di cumulo territoriale aprioristicamente guidata. Qualcuno potrebbe obiettare che un limite percentuale non sarebbe accettabile ove questo metta in pericolo il raggiungimento degli obiettivi degli 80 GW distribuiti tra le regioni anche per la cogenza di quegli obiettivi unionali assunti nella stessa legge. Ma anche questo non sembra decisivo, dovendo le regioni assicurare il raggiungimento di quel tetto. Anzi rovescia il problema, perché casomai assistiamo alla prevalenza dell’obiettivo rispetto ai diritti lesi: se per raggiungere quell’obiettivo si dovessero interessare aree per loro natura inidonee o vincolate, o agricole di pregio o simili, che succederebbe? Da quello che si legge - a parte il fatto che forse il problema è non così vicino – qualcuno potrebbe desumere che dovrebbe dominare l’obiettivo. In effetti a leggere anche il nuovo testo unico si torna a costatare la prevalenza dettata per legge ad un interesse. La mente corre ad una questione rilevantissima, perché ammesso che la legge abbia generato un effetto così devastante nella determinazione della gerarchia dei valori costituzionali, il giurista deve porsi prima il problema se ciò sia possibile, e poi del se e del come ciò sia avvenuto. Il tema è che la caratura costituzionale del paesaggio tra i principi fondamentali, e i tanti decenni che hanno generato l’evoluzione del governo del territorio, fino al consolidamento delle interpretazioni che vigevano sotto il testo dell’art.9 Cost. (almeno con il vecchio) costituiscono muri invalicabili e parametri di riferimento per assicurare quelle finalità di ordinato assetto del territorio che nessuno ha mai abrogato. Dunque una lettura abrogativa non sembra possibile. Eppure da quando l’art.9 è stato modificato, equiparando tutela del paesaggio e tutela dell’ambiente, il tema si è frettolosamente posto nel cercare metodi di convivenza tra i due grandi quando incomparabili per disomogeneità valori. L’esito costituito dalla c.d. teoria del bilanciamento, (Cons. Stato, sez. V, 28 maggio 2024, n. 4766; Cons. di Stato, sez. VI, n. 10624/2022 e n. 8167/2022) tutt’altro che soddisfacente come sostenuto da più parti, pare addirittura superato oggi quando il nuovo Testo Unico sceglie invece di sovrapporre l’uno sull’altro. L’art. 3 dispone infatti che: ”In sede di ponderazione degli interessi, nei singoli casi e salvo giudizio negativo di compatibilità ambientale o prove evidenti che tali progetti abbiano effetti negativi significativi sull'ambiente, sulla tutela della biodiversità, sul paesaggio, sul patrimonio culturale e sul settore agricolo, con particolare riferimento alla valorizzazione delle tradizioni agroalimentari locali, anche tenendo conto di quanto previsto ai sensi dell'articolo 20 del decreto legislativo 8 novembre 2021, n. 199, gli interventi di cui all'articolo 1, comma 1, sono considerati di interesse pubblico prevalente ai sensi dell'articolo 16-septies della direttiva (UE) 2018/2001 del Parlamento europeo e del Consiglio, dell'11 dicembre 2018.
La norma in effetti non solo conferma la cd. teoria del bilanciamento e della valutazione “ caso per caso” (“.. nei singoli casi…”) ma assume anche la prevalenza delle fer come specchio della tutela dell’ambiente. Letteralmente comunque si nota la prudenza - peraltro - di ritenere che questo avvenga “ quando non vi siano prove evidenti” di lesioni di altri diritti; o quando non vi siano giudizi (cioè esito di valutazioni procedimentali) di …effetti negativi significativi sull'ambiente… . Come dire che l’effetto della norma sia soprattutto quello di interdire una tutela – e quindi una difesa in sede procedimentale - aprioristica del paesaggio o di altri interessi (ammassati nella semplicità della disposizione, ma da reputarsi rilevanti singolarmente). Si affaccia l’idea di una tutela condizionata. E con essa i consueti problemi di conflitti nelle conferenze di servizio, o in sede giudiziaria visto che le PAS non saranno certo capaci di effettuare istruttorie di adeguata caratura. Difficile, infatti, immaginare che un parco eolico non sia lesivo paesaggisticamente quando posto sul crinale dell’Appennino. Basta a questo la sua visibilità. E per questo non basterà affermare che la sua realizzazione costituisce interesse pubblico prevalente ai sensi dell'articolo 16-septies della direttiva (UE) 2018/2001 del Parlamento europeo e del Consiglio, dell'11 dicembre 2018.
Il secondo comma dell’art. 3 del Test Unico prevede poi che, con uno o più decreti del Presidente del Consiglio dei ministri, su proposta dei Ministri interessati, previa intesa sancita in sede di Conferenza unificata, si possano individuare parti di territorio in cui questo primo comma non si applichi. Il che non può che significare la prevalenza del progetto specifico sulle norme generali, e qui è innegabile il sospetto di lesione costituzionale, come se quei progetti del PNIEC fossero autogiustificati oltre ogni limite, prevalenti sempre e comunque, visto che sono esentati da valutazioni ulteriori rispetto alla istruttoria che li ha filtrati all’esito della loro previsione in un clima emergenziale.
La nozione di “interesse pubblico prevalente” non sembra poi assimilabile a quella già contenuta nell’art. 12 del d.leg,vo 387/2003,( “opere di pubblica utilità indifferibili ed urgenti)” perché ha ratio e genesi diversa. Quest’ultima nasceva dalla necessità di derivazione unionale di rompere i limiti divisori della zonizzazione urbanistica così da aprire il varco alla realizzazione delle fer in area agricola; mentre quella del testo unico nasce per agevolare la massima diffusione delle fer forzando la gerarchia tra interessi in sede di valutazione. Del resto la nozione già contenuta nell’art.12 è riprodotta ancora oggi nello stesso d.leg.vo 190. Si assiste dunque alla costruzione di un percorso agevolativo delle fer particolarmente marcato, tale cioè da immettere una nozione di pubblica utilità a cui si affianca una agevolazione dinamica a valle in sede istruttoria o giudiziaria. Da ricordare che quest’ultima spinta nasce poi in sede europea, ove l’art. 1 della direttiva 2023/2413 del Parlamento europeo e del Consiglio del 18 ottobre 2023 ha inserito nella direttiva (UE) 2018/2001 un nuovo art. 16-septies – rubricato “Interesse pubblico prevalente” – in base al quale “Entro il 21 febbraio 2024, fino al conseguimento della neutralità climatica, gli Stati membri provvedono affinché, nella procedura di rilascio delle autorizzazioni, la pianificazione, la costruzione e l’esercizio degli impianti di produzione di energia rinnovabile, la connessione di tali impianti alla rete, la rete stessa e gli impianti di stoccaggio siano considerati di interesse pubblico prevalente e nell’interesse della salute e della sicurezza pubblica nella ponderazione degli interessi giuridici nei singoli casi e ai fini dell’articolo 6, paragrafo 4, e dell’articolo 16, paragrafo 1, lettera c), della direttiva 92/43/CEE, dell’articolo 4, paragrafo 7, della direttiva 2000/60/CE e dell’articolo 9, paragrafo 1, lettera a), della direttiva 2009/147/CE”. La motivazione del nuovo art. 16-septies della direttiva 2023/2413 si rinviene nel considerando n. 44: “Ai fini del pertinente diritto ambientale dell’Unione, nelle necessarie valutazioni caso per caso intese ad accertare se un impianto di produzione di energia rinnovabile, la connessione di tale impianto alla rete, la rete stessa o i mezzi di stoccaggio sono d’interesse pubblico prevalente in un determinato caso, gli Stati membri dovrebbero considerare tali impianti di produzione di energia rinnovabile e la relativa infrastruttura d’interesse pubblico prevalente e d’interesse per la salute e la sicurezza pubblica eccetto se vi sono prove evidenti che tali progetti hanno effetti negativi significativi sull’ambiente che non possono essere mitigati o compensati, o se gli Stati membri decidono di limitare l’applicazione di tale presunzione in circostanze specifiche e debitamente giustificate, quali motivi connessi alla difesa nazionale. Tali progetti possono beneficiare di una valutazione semplificata nel momento in cui tali impianti di produzione di energia rinnovabile sono considerati d’interesse pubblico prevalente e funzionali alla salute e alla sicurezza pubbliche”.
Da notare poi che il terzo comma dell’art. 3 del Testo unico prevede la salvezza della individuazione delle aree idonee, come a dire che queste sono indipendenti dal contesto e dai criteri di collocazione, valutate a priori come non generatrici di lesione di diritti, come aree ideali sulle quali realizzare impianti fer. Così acquistano senso anche le altre premesse e i considerando della direttiva che al n. 25 richiama la “mappatura coordinata per la diffusione delle energie rinnovabili e per le relative infrastrutture, in coordinamento con gli enti locali e regionali” e la valutazione delle aree idonee come “particolarmente adatte ai fini dello sviluppo di progetti in materia di energia rinnovabile”, fino all’affermazione - che da anni viene da taluni invocata (cfr. anche gli articoli in questa rubrica) in virtù della quale “In tale contesto la pianificazione territoriale rappresenta uno strumento indispensabile”. Questa ultima affermazione colpisce e merita un commento anche per il silenzio con cui è stata accompagnata, soprattutto rispetto a quante volte, sui tavoli più vari, si è cercato di portare chi decideva a valutare la imprescindibilità della pianificazione in questa materia, come irrinunciabile acquisizione culturale e giuridica del nostro sistema, avendo ben previsto quello che sarebbe successo poi per la inversione forzata dei criteri di collocamento degli impianti fer. Ma nessuno lo ha fatto. E‘ innegabile che in questa materia hanno pianificato – lontano da ogni logica - i privati e non la parte pubblica che di tale prerogativa è stata così espropriata. La individuazione delle aree idonee è la risposta, pur tardiva, a questa esigenza, che per quello che si percepisce ad oggi dalle regioni non sembra essere stata colta con la dovuta attenzione. Del resto chi segue questa materia sa bene che non ha alcuna rilevanza affermare in una norma che gli impianti vanno posti “ privilegiando” ( art.20 d.leg.vo 199/2021) tetti e coperture , quando poi nella pratica quella che dovrebbe essere una gerarchia di scelta in mano pubblica non ha alcuna possibilità di attuazione visto che nessuno può impedire che si presenti un progetto per collocazione di tutt’altro peso territoriale. Quel gerundio rimane una invocazione, non un dovere o un obbligo.
All’esito di quanto esposto sopra si percepisce il tentativo di semplificare e agevolare la installazione delle fer, e tutto il sistema disegnato e riordinato porta a tale conclusione solo nel constatare il regime amministrativo, il depotenziamento in termini procedimentali e sostanziali dei vincoli, la elevazione di potenza degli impianti esistenti. Ma i temi di fondo, e le questioni accese sin dalla modifica dell’art. 9 della Costituzione permangono nella loro difficoltà, nella inevitabile necessità di effettuare valutazioni in sede autorizzatoria, non potendo ritenersi legittima una lettura delle nuove norme come derogatorie delle prerogative costituzionali di cui il paesaggio gode ancora. Non ci sono scorciatoie a problemi che hanno tanta analogia con i temi dell’urbanistica degli anni sessanta e sui quali solo un cammino di paziente costruzione ed affinamento ha potuto dare a decenni di distanza risultati positivi, equilibrando poteri, prerogative, effetti socio-economici, affermazione di principi. Il fatto è che qui si ha fretta, e la fretta giova al cattivo risultato. Ognuno dovrebbe mettere il proprio impegno nelle sedi in cui opera per migliorare qualità progettuali e di valutazione. I comuni sono investiti di poteri rilevanti adesso con le PAS, e hanno in mano istruttorie che dovranno dare prova di adeguatezza e di prevenzione di danni territoriali, e al contempo consentire che il fenomeno delle fer dia i risultati sperati senza ledere quei valori identitari che sono connaturati alla nostra dignità civica e nazionale. La Regione - evidenziata la caduta dei limiti percentuali - dovrà procedere in fretta al suo lavoro di identificazione (la procedura di VAS in Umbria effettuata dava prova si positiva attenzione), ma la visione lenticolare mostra una mera fotografia del dato e non una programmazione vera e propria che dovrebbe comportare scelte precise tra tipologia di impianti e la capacità produttiva di energia. Forse una rimeditazione dei poli energetici che nel Lazio stanno dando grandi prospettive potrebbe anche aiutare; la sussidiarietà è principio cardine del nostro sistema. Restiamo in attesa confidando che l’Umbria possa correre ed essere all’altezza della situazione.