Il TAR Umbria sulla limitazione percentuale di occupazione di aree destinate a impianti FER - (sentenze Tar Umbria nn.613,615,723/2023)
A cura dell'Avvocato Marco Luigi Marchetti.
La novità portata dalle sentenze che qui si annotano è di grande rilievo, e riguarda quello che ormai appare un indirizzo interpretativo preciso e consolidato del Tar Umbria sulla materia, che irrompe così con effetti anche nel quadro nazionale, accendendo un faro su aspetti importantissimi.
Le pronunce infatti dimostrano un salto rilevantissimo in avanti sul tema dei “limiti” di occupazione dei suoli. Nella ricerca ultraventennale di una soluzione - o quanto meno di una linea di mediazione tra gli interessi in campo - nonché di criteri concreti sul tema della collocazione degli impianti - quello della percentuale massima di occupazione è centrale non solo per le regioni ( ad es. Lazio, Puglia, Basilicata) dove la concentrazione ha assunto carattere patologico, e dove i comuni invocano inutilmente il principio di saturazione, ma anche dove il tema è agli inizi dello sviluppo (come in Umbria) e occorre prevenire proprio quegli errori commessi altrove. La sentenza vaglia e difende la impostazione della legge regionale umbra evidenziandone la coerenza di principio con tutto il sistema, e respingendo le tesi posti a base dei ricorsi che impugnavano dinieghi alla realizzazione di impianti fondati sul superamento dei limiti percentuali di occupazione fondiari previsti da quella legge (Reg. Reg. n.7/2011 modificato in Reg. Reg.. 4/2022).
Chi ha mai percorso le strade della provincia di Foggia, o quelle della Tuscia, avrà infatti notato in quelle terre il tracollo del principio di proporzionalità, visto un ingiustificato stato di compromissione dei suoli ove domina il silicio specchiante dei pannelli o le torri eoliche da 250 metri e non più i pascoli o il grano duro. Non si fraintenda: le fer sono utili, anzi necessarie, e nessuno può permettersi di contestarlo, ma il “ come” è frutto di scelte che richiedono competenza e visione chiara e lungimirante e non possono essere rimesse sempre al privato senza alcun filtro e limite.
Nei tentativi - a volte anche non troppo meditati - di arginare il fenomeno da parte degli enti locali, connotati dal fronteggiare un clima di cogente emergenza contenuto nella legislazione unionale e nazionale, più volte sono stati fissati limiti massimi di occupazione delle aree agricole che però poi caddero o furono modificati sotto la pressione delle interpretazioni delle norme generatrici di favor per le fer e del principio di massima diffusione.
Il Lazio ad esempio introdusse con la LR 16/2011 ( nello stesso anno in cui la regione Umbria introdusse con il Reg. 7/2011 il tetto per le aree agricole del dieci per cento al netto delle aree boscate ) il tetto del tre per cento per le aree a destinazione agricola, e poi anche una moratoria generale, con sospensione dei procedimenti autorizzatori per dare tempo ai comuni di individuare nel frattempo la aree idonee (legge poi caduta sotto la sentenza della Corte Cost. n.221/2022 che ritenne illegittima la moratoria ……). La legge regionale laziale del 2011 (modificata con la LR 10/2020) prevedeva infatti che nelle more della redazione del Piano Energetico regionale i comuni “ al fine di garantire uno sviluppo sostenibile del territorio, la tutela dell’ecosistema e delle attività agricole, nel rispetto dei principi e dei valori costituzionali ed eurounitari individuano, considerate le disposizioni del Dm 10 settembre 2010 .. le aree idonee per la installazione degli impianti fotovoltaici a terra per una superficie complessiva non superiore al 3 per cento delle zone omogenee E di cui al DM 1444/1968 identificate negli strumenti urbanistici comunali “.
La norma laziale fu riprodotta a cascata in molti regolamenti e delibere comunali dei territori che recepirono il tetto, ma fu contestata e anche in alcuni casi disattesa per la mancata chiarezza dei parametri di riferimento. La fissazione del limite percentuale presupponeva in effetti il tema rilevantissimo della illegittimità di una occupazione territoriale senza limiti delle aree agricole, evitando così interpretazioni troppo dilatate del principio della massima diffusione, e si opponeva anche ad un indirizzo giurisprudenziale - tutt’ora rinvenibile anche tra le righe delle pronunce più recenti - ostile alla fissazione di limiti aprioristici di collocazione da parte delle regioni; e questo perché si rinviene nel procedimento autorizzatorio la vera stanza di compensazione degli interessi rilevanti, imponendo di valutare la situazione anche generale “ caso per caso” (ad es. Tar Lazio, 12 giugno 2023 n.9907: ” …. le stesse Sezioni Unite della Cassazione Civile hanno ribadito la sussistenza di un favor allo sviluppo delle fonti rinnovabili derivante dalla normativa Europea, puntualmente recepito dal legislatore nazionale, tale da non consentire “alle singole Regioni di adottare legittimamente una normativa regionale concorrente contrastante con questi principi, che ponga dei divieti assoluti di realizzazione di impianti da energie rinnovabili, né di adottare provvedimenti amministrativi che precludano la realizzazione di tale finalità in assoluto, ma lasciando spazio alle Regioni di individuare, caso per caso, situazioni in cui l’interesse allo sfruttamento della energia da fonte rinnovabile debba essere recessivo rispetto ad altri interessi costituzionalmente protetti, che rispondano anch’essi a principi affermati a livello Europeo”, ciò allo scopo di bilanciare, volta per volta, tutti gli interessi pubblici eventualmente contrapposti (cfr. Corte Cass., Sez. Unite, 14/04/2023, n. 10054)”.
Del resto la limitazione percentuale fissata per legge, nel dibattito di quegli anni, paventava il rischio di configurarsi incoerente con i principi comunitari recepiti dal legislatore: un tetto appunto “ aprioristico” nella astrattezza della norma, ove la scelta del numero percentuale – senza riferimenti legislativi se non dell’opportunità e della proporzionalità - diventava scelta a rischio di arbitrarietà. Non solo, ma si poteva anche sostenere che il limite percentuale – calcolato con riferimento alla unità fondiaria e non in via assoluta sul territorio – determinava conseguenze limitative alla installazione per i grandi impianti perché riferito alla variabilità della dimensione della proprietà - questa rimessa al privato - e non al territorio in generale, che in caso di forte parcellizzazione condizionava anche la dimensione degli impianti. Il limite poteva in questa ottica anche rivelarsi fallace quando non consentiva di utilizzare unità fondiarie magari ideali per la collocazione nella loro interezza, con pregiudizio degli stessi principi generali della materia.
Il riferimento della percentuale alla unità fondiaria è concetto che evoca il diritto urbanistico, quando richiama la nozione di capacità di sfruttamento proporzionata alla superficie disponibile che, a sua volta, attua un indice stabilito a monte dalla pianificazione così determinando un tetto massimo nella unità fondiaria e di conseguenza nel territorio. Qui il paragone sembra calzare fino ad un certo punto (la pianificazione è strumento ben più articolato) ma è comunque un modo di ripartire utilità e al tempo stesso di imporre un limite generale. Non ha dunque nulla di irragionevole ed è coerente con principi consolidati nel nostro sistema. Nel nostro caso assume coerenza anche per le chiarissime previsioni legislative divenendo un parametro di difesa territoriale opportuno e legittimo.
Nei casi esaminati dal Tar Umbria le aziende ricorrenti, di fronte alla resistenza del comune o della regione , impugnavano anche l’art 6 del reg. reg. 7/2011 come modificato dal 4/2022 nella parte in cui limita, nelle aree agricole di cui all’art. 21 lett.c) della legge reg. 1/2015, al 20 per cento della superficie disponibile dal proponente la possibilità di realizzazione.
La forza motrice della impugnazione veniva ravvisata dai ricorrenti nella incoerenza delle previsioni umbre con la normativa nazionale ed unitaria che afferma in più punti il principio della massima diffusione delle fer, e che non prevede e non tollera limitazioni di tale tipo; nonché sulla incompatibilità con la fissazione di un limite percentuale massimo. Denunziava quindi l’illegittimità delle disposizioni regionali in materia di “potenzialità fotovoltaica”, sostenendone la contrarietà alla disciplina statale volta all’incentivazione della realizzazione di impianti per la produzione di energia da fonti rinnovabili attraverso la individuazione di aree idonee a tale fine. I motivi di ricorso toccavano anche la conseguente fissazione di requisiti minimi (la quantità di area disponibile e la necessità della sua dimostrazione) per poter installare un impianto fer per contrasto con i principi fondamentali, di matrice sovranazionale, che spingono nel senso dell’accelerazione del percorso di transizione energetica, che non tollerano quindi l’imposizione di “requisiti minimi” ulteriori rispetto a quelli richiesti al livello statale.
Il Collegio risponde esaustivamente a tutti i motivi cementando così un puntello di confine sulla materia.
Respinge infatti le eccezioni formulate verso il regolamento regionale n. 7/2011, come modificato dal regolamento regionale n. 4/2022, per asserito contrasto con le norme statali di cui all’art. 12 del d.lgs. n. 387/2003 ed al d.m. del 10.09.2010, oltre che con le disposizioni statali di cui agli artt. 16, co. 1 e 2, e 17, co. 3, lett. e), del D.P.R. n. 380/2001, richiamando le stesse disposizioni del d.Leg.vo 199/2021. Il regolamento regionale stabilisce, al comma 1 dell’art. 6-bis, che «[n]elle aree classificate quali insediamenti produttivi e per servizi esistenti e di nuova previsione di cui all’articolo 96 del regolamento regionale 2/2015, aventi la caratteristica della continuità, la potenzialità fotovoltaica, intesa quale superficie massima utilizzabile per l’ubicazione degli impianti fotovoltaici con moduli collocati a terra, è pari: a) al settanta per cento della superficie residua libera delle predette aree, nel caso in cui le strutture esistenti, nella medesima area, siano tutte dotate di coperture fotovoltaiche; b) al cinquanta per cento della superficie residua libera delle predette aree, nei restanti casi». Il secondo comma prevede che, nel caso di aree industriali dismesse, di cui all’art. 97 del r.r. n. 2/2015, comprese le aree di centrali di produzione di energia termo-elettrica in riconversione, la potenzialità fotovoltaica è stabilita, anche in deroga al limite massimo di cui al comma 1, d’intesa con la Regione e il comune o i comuni interessati in ragione della dimensione e delle caratteristiche dell’area dismessa e degli interventi programmati.
Il successivo comma 4 prevede che «[p]er gli interventi di cui al comma 1, la documentazione di progetto contiene anche la proposta di atto d’obbligo di cui all’articolo 3, comma 8, lettera b)», che comprende la superficie destinata all’impianto fotovoltaico nonché tutte le dotazioni urbanistiche dell’intera area asservita, avente la caratteristica della continuità.
La Regione Umbria, investita del procedimento, (e negli altri casi il comune) invitava la ditta ricorrente a documentare la disponibilità delle aree necessarie al raggiungimento della potenzialità fotovoltaica nei termini di cui all’art. 6-bis del regolamento regionale n. 7/2011.
In sostanza, data l’ampiezza della superficie destinata dal progetto all’installazione degli impianti, da determinarsi secondo lo stesso regolamento regionale, il proponente avrebbe dovuto dimostrare la disponibilità di terreni come lo stesso regolamento prevede (tale che l’area destinata ad essere occupata dall’impianto non avrebbe potuto eccedere la misura del settanta per cento della superficie residua libera, nel caso in cui le strutture già esistenti nella medesima area fossero tutte dotate di coperture fotovoltaiche, e del cinquanta per cento della superficie residua libera delle predette aree, nei restanti casi).
Secondo la ricorrente, siffatte limitazioni contrasterebbero con le disposizioni statali che mai richiederebbero la dimostrazione del possesso di titoli di disponibilità relativi ad aree ulteriori rispetto a quelle destinate ad ospitare l’impianto fotovoltaico rilevando che le aree del progetto ex art. 20, co. 8, lett. c-quater), d.lgs. n. 199/2021 sono aree idonee ope legis.
Il Tar dà atto che l’area interessata dal progetto possa essere qualificata “idonea” e questo determina in generale varie agevolazioni( riduzioni di oneri procedimentali (art. 4, co. 2-bis, e art. 6, co. 9-bis, del d.lgs. n. 28/2011), l’innalzamento delle soglie VIA (art. 6, co. 9-bis del d.lgs. n. 28/2011), riduzioni dei termini procedimentali (art. 22, co. 1, lett. b), del d.lgs. n. 199/2021) e l’attribuzione della valenza non vincolante al parere obbligatorio dell’autorità competente in materia paesaggistica (art. 22, co. 1, lett. a), del d.lgs. n. 199/2021). Ma questo non significa che la previsione umbra posa essere censurata giacchè risulta invece coerente con la normativa nazionale. L’art. 20, co. 8, del d.lgs. n. 199/2021 stabilisce quali aree devono essere considerate idonee «[n]elle more dell’individuazione delle aree idonee sulla base dei criteri e delle modalità stabiliti dai decreti di cui al comma 1» del medesimo articolo.
L’idoneità per legge delle aree indicate nel comma 8 serve ad evitare che il tempo necessario per l’emanazione dei decreti ministeriali di cui al comma 1 e per la successiva individuazione delle aree idonee da parte delle Regioni ai sensi del comma 4 possa compromettere l’interesse alla realizzazione di impianti di produzione di energia da fonti rinnovabili.
Una volta che il sistema sarà portato a regime, i «principi e criteri omogenei per l’individuazione delle superfici e delle aree idonee e non idonee all’installazione di impianti a fonti rinnovabili aventi una potenza complessiva almeno pari a quella individuata come necessaria dal PNIEC per il raggiungimento degli obiettivi di sviluppo delle fonti rinnovabili, tenuto conto delle aree idonee ai sensi del comma 8» saranno stabiliti con uno o più decreti del Ministro della transizione ecologica (oggi Ministro dell’ambiente e della sicurezza energetica), di concerto con il Ministro della cultura, e del Ministro delle politiche agricole, alimentari e forestali (oggi Ministro dell’agricoltura, della sovranità alimentare e delle foreste), previa intesa in sede di Conferenza unificata (art. 20, co. 1). Il comma 1 dell’art. 20 del d.lgs. n. 199/2021 indica, alle lettere a) e b), quale dovrà essere «in via prioritaria» il contenuto dei decreti ministeriali di cui si è detto sopra.
In primo luogo, detti decreti dovranno «dettare i criteri per l’individuazione delle aree idonee all’installazione della potenza eolica e fotovoltaica indicata nel PNIEC, stabilendo le modalità per minimizzare il relativo impatto ambientale e la massima porzione di suolo occupabile dai suddetti impianti per unità di superficie, nonché dagli impianti a fonti rinnovabili di produzione di energia elettrica già installati e le superfici tecnicamente disponibili» (lett. a)).
In secondo luogo, gli stessi decreti dovranno «indicare le modalità per individuare superfici, aree industriali dismesse e altre aree compromesse, aree abbandonate e marginali idonee alla installazione di impianti a fonti rinnovabili» (lett. b)). Conformemente ai criteri stabiliti con i suddetti decreti ministeriali, ed entro centottanta giorni dalla loro entrata in vigore, le Regioni dovranno poi provvedere con propria legge all’individuazione delle aree idonee, prevedendosi che nel caso di mancata emanazione della legge regionale o di mancata ottemperanza ai principi, ai criteri e agli obiettivi stabiliti con i citati decreti ministeriali, lo Stato sarà chiamato ad esercitare i propri poteri sostitutivi di cui all’art. 41 della legge n. 234/2012 (art. 20, co. 4, del d.lgs. n. 199/2021). Ma questo, secondo il Tar, non giustifica certo la incoerenza con la normativa umbra citata. La tesi, infatti, trova testuale smentita nelle disposizioni dell’art. 20, co. 1, del d.lgs. n. 199/2021, ove prevedono che, nel definire principi e criteri omogenei per l’individuazione delle superfici e delle aree idonee e non idonee all’installazione di impianti a fonti rinnovabili, i decreti ministeriali ivi previsti dovranno, in via prioritaria, stabilire, proprio in riferimento alle aree idonee, tra le altre cose, «la massima porzione di suolo occupabile dai suddetti impianti per unità di superficie».
Tale previsione è coerente con l’impostazione di fondo delle disposizioni contenute nell’articolo in esame, orientate al concreto raggiungimento degli obiettivi di sviluppo delle fonti rinnovabili previsti dal Piano nazionale integrato per l’energia e il clima (PNIEC), ma sempre tenendo conto delle esigenze, parimenti rilevanti, di «minimizzare il relativo impatto ambientale» e della «tutela del patrimonio culturale e del paesaggio, delle aree agricole e forestali, della qualità dell’aria e dei corpi idrici, privilegiando l’utilizzo di superfici di strutture edificate, quali capannoni industriali e parcheggi, nonché di aree a destinazione industriale, artigianale, per servizi e logistica e verificando l’idoneità di aree non utilizzabili per altri scopi, ivi incluse le superfici agricole non utilizzabili» (cfr. commi 1, 3 e 4 dell’art. 20).
Dunque, proprio la normativa statale prevede ed anzi impone (art. 20, co. 1, lett. a), del d.lgs. n. 199/2021) che sia definita, per le aree idonee, la massima porzione occupabile dagli impianti di produzione di energia da fonti rinnovabili, trattandosi di previsione con ogni evidenza finalizzata a scongiurare che la pur incentivata diffusione della produzione di energia da fonti rinnovabili determini un eccessivo consumo di suolo. Dunque, la tesi del ricorrente, secondo la quale il regolamento regionale avrebbe arbitrariamente ed illegittimamente aggiunto, con gli artt. 6-bis e 3, co. 8, “requisiti minimi” ulteriori per la presentazione dell’istanza di autorizzazione unica consistenti nel titolo di disponibilità di un’area da lasciare libera da moduli fotovoltaici pari al 50% della superficie intera e nella proposta di convenzione o atto d’obbligo di cui all’art. 42 del regolamento regionale n. 2/2015, non è meritevole di condivisione.
Ma la sentenza tocca un altro punto decisivo per la materia.
Il punto è che ad oggi, pur essendo scaduto il termine di cui all’art. 20, co. 1, del d.lgs. n. 199/2021, i decreti ministeriali ivi previsti non sono stati ancora adottati. Manca, dunque, quella «necessaria integrazione» richiesta dall’art. 20, co. 1, del d.lgs. n. 199/2021, peraltro in riferimento ad aspetti della disciplina di principio che lo stesso legislatore ha previsto che debbano essere stabiliti «in via prioritaria», tra i quali figura quello riguardante la massima porzione di suolo occupabile dagli impianti per unità di superficie. In una tale situazione non potrebbe ritenersi che, in attesa della emanazione dei decreti ministeriali, la materia in questione rimanga priva di normazione di principio in relazione a profili che il legislatore statale ritiene di rilevanza tale da richiederne la definizione prioritaria, giacché, altrimenti, nelle aree idonee ex lege le Regioni finirebbero per dover autorizzare l’installazione degli impianti senza limiti di copertura delle superfici, contravvenendo così alla chiara – seppur incompleta – indicazione della legislazione statale. l’art. 20, co. 1, del d.lgs. n. 199/2021 specifica, come si è visto, che «in via prioritaria» i decreti ministeriali dovranno stabilire «la massima porzione di suolo occupabile dai suddetti impianti per unità di superficie», stabilendo chiaramente che una misura massima di suolo occupabile dovrà essere stabilita, salvo demandare alle linee guida la determinazione di tale misura.
“ …una volta scaduto il termine per l’adozione dei decreti ministeriali senza che questi siano stati emanati, una regola come quella invocata dalla parte ricorrente dovrebbe indurre a ritenere che, fino a quando non verrà meno l’inadempimento del Ministero, le Amministrazioni interessate si troverebbero costrette ad autorizzare l’installazione di impianti come quelli per cui è causa senza alcun limite di massima copertura del suolo occupabile, tradendo così l’intento chiaramente espresso dal legislatore, a scopo di tutela del suolo e di contrasto della sua impermeabilizzazione, con la previsione sopra ricordata. la fonte regolamentare regionale (nel caso di specie, il regolamento regionale n. 7 del 2011 come modificato dal regolamento regionale n. 4 del 2022) vale a colmare un vuoto determinato dall’inerzia del normatore statale fino a quando quest’ultimo non avrà provveduto ad emanare i decreti di cui all’art. 20, co. 1, del d.lgs. n. 199/2021”.
La sentenza ha dunque effetti rilevantissimi nel panorama orientativo degli enti locali, allargando prospettive operative e regolamentari e imponendo il rispetto di un principio di proporzionalità non solo rinvenibile nel testo costituzionale sotto vari aspetti (tutela del paesaggio, non mediabilità tra paesaggio e ambiente quali valori non omogenei; riconoscendo un principio di saturazione territoriale) ma anche sotto la legittimità di una autotutela rispetto al ritardo del governo centrale. La sentenza, che attua una equazione perfetta di norme e principi ripristinando equilibri e proporzione, illuminante per la materia, offre dunque moltissimi spunti di riflessione, potendo proprio l’art. 20 essere chiamato a risolvere anche i conflitti che animano i territori dove la erosione delle zone agricole ha avuto esiti sproporzionati.