Istanza ex art. 36 DPR 380/2001 decorsi sessanta giorni. Il valore di rigetto del silenzio.
a cura dell'Avvocato Marco Luigi Marchetti
Il valore di rigetto del silenzio serbato rispetto ad una istanza ex art. 36 DPR 380/2001 decorsi sessanta giorni dalla sua presentazione.
Si segnala che il Tar Lazio, (Tar Lazio, sez. II bis, Ord., 22 luglio 2021, n. 8854 ) ha rimesso alla Corte Costituzionale la questione di legittimità costituzionale della norma contenuta nell’art. 36, comma 3, D.P.R. n. 380 del 2001, di previsione del silenzio - diniego sull’istanza di sanatoria edilizia, dopo 60 giorni dalla sua presentazione, in relazione agli artt. 3, 24 e 113 in via mediata, e 97 Cost.
Ha chiarito la Sezione che con riferimento ai profili di ragionevolezza di cui all’art. 3 Cost., il riconnettere all’inerzia dell’Amministrazione sull’istanza di sanatoria un effetto di diniego, introduce un sicuro elemento di incertezza nel rapporto tra cittadino e Soggetto pubblico, impedendo al primo di poter comprendere le ragioni della reiezione, e costringendolo, ove non presti adesione, a ricorrere ad una tutela giurisdizionale “al buio”, con aggravamento della propria posizione processuale.
Prosegue il Tar che “In relazione all’art. 24 Cost., occorre segnalare che, laddove l’interessato si rivolga al Giudice, lo stesso è costretto a impugnare un silenzio qualificato dal legislatore come provvedimento negativo, dunque del tutto sprovvisto di motivazione, dovendo, senza apprezzabili punti di riferimento, da un lato tentare di individuare i possibili motivi di rigetto, dall’altro cercare di affermare le ragioni di doppia conformità urbanistico-edilizia dell’abuso. Quanto ai parametri di buon andamento, imparzialità e trasparenza, di cui all’art. 97 Cost., va detto che gli stessi, per come declinati dal legislatore ordinario, in primo luogo con la L. n. 241 del 1990, impongono all’Amministrazione di rispondere alle istanze dei privati in tempi certi, previo adeguato contraddittorio procedimentale, e con provvedimenti espressi e motivati.
Con riferimento in ultimo all’art. 113 Cost., occorre rilevare che l’esercizio del diritto alla tutela giurisdizionale avverso gli atti della pubblica amministrazione è reso più gravoso dall’assenza in sostanza di un vero e proprio atto amministrativo - sussistente solo come fictio iuris, a cui rivolgere le proprie censure, oltre che, come visto, dalla mancata evidenziazione delle ragioni a supporto.
Tutto ciò altererebbe anche la struttura dell’ordinamento, articolata secondo il principio della separazione dei poteri, richiedendosi al Giudice di intervenire pressochè in veste di Organo di amministrazione attiva”.
L’art.36 ha già avuto l’attenzione della corte costituzionale, e qui il profilo è di grande interesse perché, tocca il principio generale di spingere l’amministrazione comunque a pronunciarsi sulle istanze dei privati. Lo Sportello darà notizia dell’esito non appena uscirà la sentenza.
La valenza delle prescrizioni in materia di distanze contenute nei regolamenti edilizi.
Il tema, di grande interesse anche per la conflittualità che genera tra confinanti e per la difficoltà di gestire procedimenti contenziosi ove i comuni vengono coinvolti quando devono necessariamente valutare la legittimità dei provvedimenti rilasciati con lesioni di distanze, vede una pronuncia recentissima che deve guidare i comuni alla massima chiarezza nella redazione delle NTA o dei regolamenti edilizi.
Afferma Cons. St., sez. VI, 21 luglio 2021, n. 5496 che anche qualora il Reg. edilizio prevede la distanza obbligatoria di cinque metri dal confine per le nuove costruzioni, non si può sostenersi la inapplicabilità del principio della prevenzione (chi costruisce per primo detta le distanze).
Il ragionamento - che suscita perplessità - si fonda sul seguente testuale argomento: L’art. 36 del d.lgs. n. 380 del 2001, la cui rubrica reca «accertamento di conformità», dispone, tra l’altro, che in caso di interventi realizzati in violazione delle norme che prevedono il permesso di costruire «il responsabile dell’abuso, o l’attuale proprietario dell’immobile, possono ottenere il permesso in sanatoria se l’intervento risulti conforme alla disciplina urbanistica ed edilizia vigente sia al momento della realizzazione dello stesso, sia al momento della presentazione della domanda» (comma 1).
L’art. 871 cod. civ., la cui rubrica reca «norme di edilizia e di ornato pubblico», prevede che «le regole da osservarsi nelle costruzioni sono stabilite dalla legge speciale e dai regolamenti edilizi comunali» (comma 1).
L’art. 872 cod. civ., la cui rubrica reca «violazione delle norme di edilizia», dispone che: i) «le conseguenze di carattere amministrativo della violazione delle norme indicate nell’articolo precedente sono stabilite da leggi speciali» (comma 1); ii) «colui che per effetto della violazione ha subito un danno deve esserne risarcito, salva la facoltà di chiedere la riduzione in pristino quando si tratta della violazione delle norme contenute nella sezione seguente o da questa richiamate» (comma 2).
Nell’ambito della sezione VI, richiamata da tale ultima disposizione, l’art. 873 cod. civ. prevede che «le costruzioni su fondi finitimi, se non sono unite o aderenti, devono essere tenute a distanza non minore di tre metri», aggiungendosi che «nei regolamenti locali può essere stabilita una distanza maggiore».
Dal complesso delle norme del codice civile sopra indicate si ricava, in via interpretativa, l’esistenza del cd. principio di prevenzione. Esso comporta che il confinante che costruisce per primo ha una triplice facoltà, potendo edificare: i) rispettando una distanza dal confine pari alla metà di quella imposta dal codice civile; ii) sul confine; iii) a una distanza dal confine inferiore alla metà di quella prescritta.
In questa sede rileva stabilire se tale principio possa operare anche nel caso in cui trovino applicazione fonti di diritto pubblico.
Le Sezioni unite della Cassazione, con orientamento che il Collegio condivide, hanno affermato che la portata “integrativa” delle norme di diritto pubblico non si limita soltanto alle prescrizioni che impongono una distanza minima, ma «si estende all’intero impianto di regole e principi dallo stesso dettato per disciplinare la materia, compreso il meccanismo della prevenzione», aggiungendo, però, che i regolamenti locali possono eventualmente escludere l’operatività di tale meccanismo «prescrivendo una distanza minima delle costruzioni dal confine o negando espressamente la facoltà di costruire in appoggio o in aderenza» (Cass. civ., sez. un., 19 maggio 2016, n. 10318).
Nella fattispecie in esame, l’art. 4.2. delle norme tecniche di attuazione, da un lato, impone a chi costruisce di rispettare la distanza minima di cinque metri dal confine, dall’altro, consente di derogare a tale prescrizione nei seguenti casi: i) «se preesiste parete in aderenza senza finestre»; ii) «in base alla presentazione di progetto unitario per i fabbricati da realizzare in aderenza»; iii) «in base ad un accordo con il confinante».
Le suddette prescrizioni non possono, per il loro contenuto, impedire l’operatività del principio di prevenzione, in quanto non pongono una regola inderogabile di distanza minima a tutela dell’interesse pubblico connesso ad una maggiore intercapedine tra i fabbricati ma ammettono deroghe legali e deroghe convenzionali. In particolare, quest’ultima deroga dimostra, in modo evidente, come le norme tecniche siano suscettibili di essere modificate anche mediante un atto di autonomia negoziale e, pertanto, non può assegnarsi ad esse una valenza tale da escludere che possa trovare applicazione il principio generale di prevenzione”.
La sentenza – di innegabile rilevanza – porta pertanto a prudenza nella gestione dei procedimenti che coinvolgono tale tema, e costituisce un invito alla massima chiarezza nella stesura delle norme regolamentari (NTA o reg. edilizi) che dovrebbero prevedere espressamente la inapplicabilità assoluta del principio di prevenzione.
Alla Corte Costituzionale le deroghe in materia di standard e limiti di distanza tra fabbricati. (Cons.St., sez. IV, ord., 17 marzo 2022, n. 1949 – Pres. Greco, Est. Loria).
La questione di legittimità costituzionale sollevata riposa sul presupposto per cui l’ art. 2-bis, comma 1, d.P.R. 6 giugno 2001, n. 380 autorizzerebbe le Regioni ad emanare una legislazione derogatoria rispetto al d.m. n. 1444 del 1968 in materia di dotazione delle aree a standard fino a poter arrivare ad annullarne la previsione, in violazione dell’art.117, secondo comma, lett. m), della Costituzione sulla determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale.
Malgrado un dubbio interpretativo possa forse essere ingenerato dal successivo comma 1-bis dell’articolo in esame, introdotto dal più recente d.l. 18 aprile 2019, n. 32, convertito, con modificazioni, dalla legge 14 giugno 2019, n. 55, secondo cui le disposizioni del comma 1 “sono finalizzate a orientare i comuni nella definizione di limiti di densità edilizia, altezza e distanza dei fabbricati negli ambiti urbani consolidati del proprio territorio”, il tenore testuale del comma 1 rimane inequivoco nel ricollegare il potere di deroga al D.M. n. 1444/1968 alla possibilità riconosciuta alle Regioni e alle Province autonome di “dettare disposizioni sugli spazi da destinare agli insediamenti residenziali, a quelli produttivi, a quelli riservati alle attività collettive, al verde e ai parcheggi, nell’ambito della definizione o revisione di strumenti urbanistici comunque funzionali a un assetto complessivo e unitario o di specifiche aree territoriali”. Pertanto, nonostante il quanto mai infelice e poco perspicuo dato testuale, non sembra dubitabile che la finalità della previsione sia quella di autorizzare una deroga a tutti i parametri e criteri contenuti nel D.M. n. 1444/1968, e non solo a taluni di essi (ciò che peraltro è confermato dai plurimi interventi legislativi, come quello qui all’attenzione, con cui le Regioni si sono avvalse di tale facoltà).
Questo modo di ragionare però “comporta effetti discriminatori, rilevanti sotto il profilo della violazione dell’articolo 3 della Costituzione, nella misura in cui, obliterando l’esigenza di fissazione di criteri omogenei e uniformi a suo tempo espressa dai commi ottavo e nono dell’articolo 41-quinquies della legge n. 1150/1942, finisce per incidere sul regime proprietario dei suoli, che risulta potenzialmente assoggettato a regole differenti nelle diverse Regioni pur in relazione ad aree avente identica destinazione urbanistica e ad interventi edilizi rientranti nella medesima tipologia. E questo genera un possibile contrasto con l’articolo 117, comma secondo, lettere m) ed s), della Costituzione”.
Anche in questo caso lo Sportello darà notizia dell’esito.
La legittimazione a richiedere il permesso di costruire e obbligo di verifica dei comuni.
Ai sensi dell’art. 11, D.P.R. 6 giugno 2001, n. 380, il permesso di costruire può essere rilasciato non solo al proprietario dell’immobile, ma a chiunque abbia titolo per richiederlo, e tale ultima espressione va intesa nel senso più ampio di una legittima disponibilità dell’area, in base ad una relazione qualificata con il bene, sia essa di natura reale, o anche solo obbligatoria, purché, in questo caso, con il consenso del proprietario.
Precisa Cons. Stato, sez. IV, 15 marzo 2022, n. 1827 che “L’onere di verifica del Comune sulla legittimazione a richiedere il permesso di costruire, di cui all’art. 11, D.P.R. 6 giugno 2001, n. 380, assume connotati differenti a seconda che la detta legittimazione si fondi sulla titolarità di un diritto reale, ovvero attenga ad una disponibilità del bene a titolo diverso. In tale ultimo caso (ad esempio, bene detenuto per effetto di contratto di locazione), l’Amministrazione è tenuta ad accertare la sussistenza del consenso del proprietario, con la conseguenza che, laddove questo difetti, non potrà procedere al rilascio del permesso di costruire.”
Cons. Stato, sez. IV, 28 gennaio 2022, n. 616.
Nei casi di permesso di costruire in deroga di cui all’art. 14 del testo unico dell’edilizia approvato d.P.R. 6 giugno 2001, n. 380, è esclusa l’operatività del silenzio-assenso di cui all’art. 20, comma 6, del medesimo testo unico, pur dopo le modifiche generali all’istituto apportate dalla novella del 2016, in considerazione della specialità del percorso procedurale che connota tale fattispecie, in cui si innesta una imprescindibile valutazione ampiamente discrezionale del Consiglio comunale in ordine all’interesse pubblico dell’intervento. Invero, secondo la costante giurisprudenza amministrativa la formazione del silenzio-assenso postula la piena conformità dell’istanza alla normativa e alla strumentazione urbanistica ed edilizia di riferimento.
Il permesso di costruire in deroga di cui all’art. 14, D.P.R. n. 380 del 2001, è un istituto di carattere eccezionale rispetto all’ordinario titolo edilizio e rappresenta l’espressione di un potere ampiamente discrezionale che si concretizza in una decisione di natura urbanistica, da cui trova giustificazione la necessità di una previa delibera del Consiglio comunale; in particolare, in tale procedimento il Consiglio comunale è chiamato ad operare una comparazione tra l’interesse pubblico al rispetto della pianificazione urbanistica e quello del privato ad attuare l’interesse costruttivo.